Prepotenti, tutt'altro che insicuri o ansiosi, agiscono già alle elementari; sono i bulli e le bulle.
Non se ne parla da molto, i primi studi italiani risalgono agli anni novanta e la maggior parte è più recente.
Il bullismo, la cui caratteristica è l'esistenza di un capo che ha bisogno di complici-vittime e della vittima designata, trova terreno fertile in una "disattenzione morale" che coinvolge la popolazione e può portare gli scolari ad essere scarsamente empatici; un esempio di questo terreno è lo scoppio di risa che accoglie i piccoli incidenti: un bambino cade a terra? Nessuno che si preoccupi di soccorrerlo, che si dispiaccia; la prima reazione è la risata corale; l'insegnante fa riflettere sull'accaduto, parla di empatia, di solidarietà… La scolaresca sembra partecipe; ma alla prossima puntata del programma televisivo, in cui si ride delle disavventure altrui, le sue parole si perdono.
Gli insegnanti difficilmente sanno riconoscere gli atti di bullismo: perché impreparati, forse ingenui; perché vengono organizzati quando il controllo sugli allievi deve essere meno pressante -in cortile, mensa, servizi; perché non necessariamente connotati da violenza evidente; perché né le vittime né coloro che assistono ne parlano.
Il bullismo è diverso e molto più grave dell'approfittamento dei compagni più deboli, dell'aggressività conseguente a problemi psicologico-relazionali e dei litigi più o meno furiosi.
Il bullo/la bulla non riconosce i ruoli adulto/bambino; in classe, non accetta il ruolo dell'insegnante e prende di mira chi si conforma alle regole, chi "soddisfa" le presunte esigenze dell'insegnante stesso.
La sua condotta è agevolata quando almeno uno dei docenti di base è scarsamente autorevole; in famiglia è accettata e indirettamente promossa, non se ne percepisce l'asocialità; i tentativi di intervento dell'insegnante vengono rintuzzati con lamentele circa la severità, l'ingiustizia verso il figlio e simili.
Il bullo/la bulla non agisce direttamente; nei momenti destrutturati sceglie i complici, vittime anch'essi, impartisce gli ordini e in aula gli/le basta un'occhiata, una parola sottovoce perché li mettano in pratica; è semplice: il complice riceve il segnale, si alza, va al cestino dei rifiuti e, passando, "casualmente" fa cadere l'astuccio della vittima designata; un oggetto della stessa può sparire durante l'intervallo; possono arrivare parole e biglietti di insulti, anche pesanti e/o sconci (dalla prima), telefonate silenziose (dalla quarta, quinta); e altro. Per giorni, settimane, mesi.
A volte i genitori della vittima non si accorgono, a volte sottovalutano le richieste di aiuto pensando che deve imparare a cavarsela; non considerano che da nessun adulto vittima di mobbing si pretenderebbe che si arrangiasse.
Il numero delle vittime-complici può crescere ed è uno dei primi segnali che l'insegnante è in grado di interpretare: bambini/e che insieme rifiutano il cibo, che si appartano ed escludono.
Un altro segnale sono le lamentele dei genitori: potrebbero essere infondate, ma è sempre opportuno indagare, con tatto.
Riconosciuto il problema, non s'aspetti che, informando i familiari dei bambini interessati, essi credano alle sue affermazioni, non è scontato; e non pensi di poter agire da solo, ma si rivolga al dirigente, al contatto con la ASL (di solito l'assistente sanitaria) e, se presente, allo sportello psicologico.